>Ossessione (disturbo ossessivo-compulsivo) |
Nei concetti di «ossessione», fenomeno ossessivo, disturbo ossessivo, confluiscono due aspetti: 1) l'apparire nella coscienza di persistenti pensieri, idee o immagini che il soggetto sente e giudica irragionevoli, eccessivi o assurdi e che, proprio per la loro persistenza e per essere in contrasto con ciò che egli vorrebbe pensare («egodistonia»), possono indurre grave sofferenza e impegnare molto del suo tempo; 2) il sentire tuttavia da parte del soggetto che tali immagini o pensieri «non voluti» sono comunque suoi pensieri, che provengono da lui, dalla propria attività psichica. Sull'aspetto della dimensione persistenza-pervasività (e correlata sofferenza) è strutturato il disturbo ossessivo della nosografia psichiatrica, in quanto pensieri che non vorremmo sono abituali nella vita psichica normale; inoltre, poiché spesso il soggetto è costretto ad azioni paradossalmente ripetitive sia per tentare di superare il pensiero ossessivo, sia per annullare le eventuali conseguenze che esso può annunciare, e tali comportamenti hanno un carattere di costrizione compulsiva, si parla di «disturbo ossessivo-compulsivo». La permanenza del normale sentimento di «appartenenza all'Io» delle idee ossessive, come di ogni altro nostro fenomeno psichico normale, segna invece il confine più specifico fra pensiero ossessivo ed esperienze psicotico-deliranti, anche se talora questo confine può essere varcato in ambedue le direzioni. Il paradosso dell'« assedio» ossessivo sta proprio nel fatto che i pensieri o immagini che sorgono nella mente in maniera inarrestabile e intrusivamente disturbante, il soggetto vorrebbe respingerli come inopportuni, oltre che fonte di sofferenza, e tuttavia non riesce a non esserne schiavo, così come ritiene generalmente assurde le azioni che compulsivamente si sente costretto a compiere per contrastarli. Se questo giudizio da parte del soggetto di irragionevolezza e inopportunità del pensiero ossessivo è una caratteristica essenziale per la definizione della ossessività, tuttavia esso può oscillare entro una gamma assai ampia, non solo da persona a persona, ma anche per lo stesso soggetto ossessivo nel tempo e a seconda delle situazioni e contesti cui si trova esposto. Il pensiero ossessivo può assumere vari temi e contenuti; i più comuni concernono l'argomento dello sporco e più in generale del disordine, da quello materiale a quello esplicitamente o allusivamente morale. Solitamente la forma è quella del dubbio tormentoso, anche per azioni quotidiane le più banali, come aver chiusa la porta di casa, aver chiuso il rubinetto del gas, ecc. ed è tipica la ripetizione del gesto per decine di volte nel tentativo di fugare il tormento del dubbio che puntualmente si riaffaccia. Talora invece l'azione compulsiva ha un senso più nettamente «magico», come se un gesto simil-rituale potesse scongiurare il dubbio di morti, disgrazie e colpe non di rado espresse nell'idea ossessiva. L'ossessione-compulsione si manifesta dunque clinicamente come una tendenza incoercibile a pensare idee, immaginare scene, compiere atti non voluti, malgrado se stessi. Mentre odierni manuali nosografia, quali il DSM-IV (1994), distinguono il «disturbo ossessivo-compulsivo» dal «disturbo di personalità ossessivo-compulsiva», definita da una esagerata preoccupazione per l'ordine, il perfezionismo, il controllo sia mentale che interpersonale, e correlati aspetti comportamentali, ma senza la presenza di definite ossessioni-compulsioni, la tradizione psichiatrica ritiene che il disturbo o nevrosi ossessiva abbia quale precondizione e infrastruttura una organizzazione patologica dell'Io, e ha prodotto importanti studi e analisi proprio sul «carattere» e sulla «persona» del soggetto affetto da disturbi ossessivi. I fenomeni ossessivo-compulsivi sono stati un tema di riflessione e interpretazione lungo tutta la storia del pensiero psichiatrico. Fin da autori classici (B.-A. Morel, V. Magnan, E. Régis) è stato sottolineato che il disturbo ossessivo si sviluppa su anomalie del carattere che è stato talora assimilato allo «schizoide» kretschmeriano, per la introversione e il difficile rapporto con la quotidianità interpersonale. K. Schneider (1966) tratta le ossessioni nell'ambito dei disturbi della personalità («personalità psicopatiche») e più esattamente nella tipologia degli psicopatici «insicuri di se stessi», caratterizzati da un atteggiamento iperscrupoloso e da un diffuso senso di insufficienza e di scarsa fiducia in se stessi. Per questo autore il fatto primario è spesso uno stato di angosciosa insicurezza, senza alcun contenuto mentale specifico, e successivamente tale stato d'animo «scopre» in maniera prevalentemente intuitiva (Einfall) i contenuti ossessivi, connessi alla storia e ai valori della persona, guidati dal persistente senso di colpa e insufficienza: «la melodia trova le sue parole» (Schneider). E tuttavia le esperienze ossessive, a differenza di quanto avviene nella patologia schizofrenica delle esperienze di influenzamento, non sono vissute come qualcosa che proviene dal di fuori dell'Io: «la coazione è invero una coazione soggettiva» (Schneider). Così, per il maestro della psicopatologia clinica, fenomeni ossessivi e personalità psicopatica «insicura di sé» sono due facce della stessa medaglia. Si può forse osservare che centrare in psicopatologia la condizione di possibilità di esperire idee ossessive, dubbi abnormi, pervasivi o francamente patologici, sull'aspetto personologico dell'insicurezza, ci pone di fronte ai significati diversi che il termine «insicurezza di sé» ricopre. Dietro questa espressione si possono comprendere sia strutture abnormi di personalità e sintomi «nevrotici», come nella trattazione schneideriana, sia situazioni psicotico-schizofreniche: vi è qualcosa di molto diverso che si nasconde dietro la banale proposizione dell'insicurezza come possibile fonte di angosciosi dubbi, perché diverse sono le «insicurezze» accomunate dallo stesso nome. Per poter intuire e illuminare questa fondamentale differenza occorre passare oltre il piano della psicopatologia fenomenologica «soggettiva», come è quasi totalmente la psicopatologia generale e clinica inaugurata da Schneider, K. Jaspers e altri grandi epigoni, e accedere al livello della fenomenologia «oggettiva». L'insicurezza nello psicotico, quale ad esempio emerge in fasi nelle quali l'ovvietà del mondo è revocata in dubbio, appare allora come un fenomeno che riguarda primariamente la costituzione dell'Io e del Mondo, a livello ontologico. Là quotidianità normalmente aproblematica nel suo silente fondamento di sicurezza ontologica, di naturalità dell'evidenza intersoggettiva, appare in filigrana come bizzarramente incrinata o stramba in modo incomprensibile, ancor più a monte dell'eventuale delirio. Il problema in effetti non concerne il «come» il mondo è, ma il fatto che «è». La differenza nella quale ci imbattiamo è quella fra un Io «trascendentale», costitutivo e «fondante», in una sorta di processo di intenzionalità continua, la ovvia realtà del Sé e del mondo, la silente sicurezza del common sense, e un Io «empirico», costituito, «fondato», che si muove nella quotidianità dell'esperienza naturale. Non vi è necessario parallelismo fra queste due istanze: una fragilità o disturbo dell'Io empirico non significa un'analoga situazione dell'Io trascendentale, e viceversa. W. Blankenburg (1971) cita come esempio di questa possibile divaricazione il caso di deliranti o di ebefrenici nei quali la deficienza dell'istanza trascendentale è ben dimostrabile, e che si muovono tuttavia con grande sicurezza di sé nella vita quotidiana. Potremmo fare l'esempio opposto ricordando persone con una grande insicurezza nevrotica, continuamente assaliti dal sentimento del dubbio ossessivo, e che in nessun caso mai vacillano nei presupposti di legittimità dell'esperienza «naturale», e anzi mostrano spesso una grande resistenza ad allontanarsi dall'ovvietà. Il fatto è che sicurezza «fondante» e sicurezza «fondata» sono due aspetti diversi. Sulla traccia di H. Ey, P. Bernard e Ch. Brisset (1989) si possono distinguere a proposito dei disturbi ossessivi: teorie meccanicistiche, quali il concetto di «idee autoctone» di C. Wernicke e di «automatismo ideo-motore» di G. de Clérambault; teorie dinamiche, quali i concetti elaborati da P. Janet e ampiamente dalla psicoanalisi freudiana. Janet (1903), allievo di J.-M. Charcot, considerava fondamentale per l'insorgere delle ossessioni un aspetto in negativo, la «debolezza psicologica», e coniò per questo gruppo di disturbi il termine «psicastenia». La debolezza psicologica, l'abbassamento della «tensione psicologica», incide sulla «funzione del reale» e impedisce al soggetto di accedere ai livelli elevati del reale, permettendo l'emergere delle idee ossessive, quali infinite ruminazioni, così diverse dal livello degli atti volontari e dei pensieri efficaci. S. Freud (1909a; 1912-13; 19130) si rivolge invece prevalentemente agli aspetti positivi nell'insorgere delle ossessioni: la loro forza non è dovuta alla «debolezza» della tensione psicologica, ma alla «pressione» delle pulsioni inconsce. Classicamente la personalità dell'ossessivo viene caratterizzata per una fissazione-regressione allo stadio «sadico-anale» dello sviluppo sessuale, dal quale l'ossessivo si difende con una serie di «formazioni reattive» che vanno dalla iperpulizia, al rispetto verso ogni autorità, agli scrupoli morali, ecc., in una sorta di compromesso fra istanze pulsionali e le esigenze di un Super-io, nell'ossessivo particolarmente potente e feroce. Per capire l'ossessivo bisogna prima capire il suo mondo, sosteneva E. Straus (1948). La tesi di fondo, che sarà il manifesto dell'antropofenomenologia, è quella di illuminare il malato nella globalità del suo modo di essere, verso le radici di ciò che è essenzialmente l'uomo. Inerisce a questo metodo di ricerca il rifiuto di analisi parcellari delle cosiddette funzioni mentali e, pur sempre partendo da rigorose illustrazioni dei dati empirici, il ricercare la totalità del malato e del suo mondo, in un circolo essenziale fra caratteri della presenza e aspetti caratteristici del mondo che essa progetta, ricercando i presupposti e le istanze abnormi che lo reggono in un tutto in sé coerente, e nel quale in definitiva egli si trova «gettato». Siamo su un piano assai diverso (ma non per questo mutualmente escludentisi !) dalla fenomenologia che fonda la psicopatologia jaspersiana: del resto lo stesso Jaspers (1959) dedica un paragrafo al «mondo dei coatti» intessuto di rappresentazioni che a lui stesso appaiono arbitrarie o insensate, ma alle quali deve obbedire, pena un'ansia senza limiti. Il mondo degli ossessivi è per Jaspers fondato su un sistema di significati e le azioni su un sistema di cerimonie e rituali: ma compiuta l'azione il dubbio costringerà l'ossessivo a ricominciarla da capo. Partendo dal presupposto che a ogni essere umano corrisponde un mondo che presenta significati del tutto particolari, nel quale si bilanciano significati «fisiognomici», privati, e che gli sembrano emergere dalle cose stesse (per i quali, ad esempio, un coltello non è solo un mezzo per tagliare il pane, ma anche l'immagine dell'aggressività), e significati «intenzionali», manipolabili e intersoggettivi, uno spostamento di accento nella significatività del situativo, in cui la significatività fisiognomica prevale su quella intenzionale (ametria) (Tellenbach, 1974), il comprendere affettivo su quello razionale, è un tratto della costituzione di mondi irrigiditi, opprimenti e patologici. Sul piano emotivo, inoltre, il rapporto con il mondo della vita è improntato alla simpatia e familiarità, mentre il mondo fisiognomico può far assumere a oggetti e situazioni la forma della repulsività e del persecutorio, che sono i caratteri specifici dei mondi ossessivi e paranoidei. Su questo piano di ricerca, due grandi studi dedicati all'ossessività sono quelli di Straus (1938, 1948) e di V. von C Gebsattel (1938). Straus centra la sua indagine sia sull'alterazione delle relazioni simpatetiche tra l'ossessivo grave e il suo mondo coesistentivo, sia sulla metamorfosi fisiognomica che ne deriva, per la quale il mondo dell'ossessivo si trasforma in una massa amorfa segnata dalla fisionomia del decadimento e dallo stato d'animo del disgusto. Disgusto che rimanda alla categoria della perdita dell'integrità, che caratterizza il passaggio da ciò che è vivente a ciò che è in decomposizione; il disgusto è diretto più verso il decadimento, il processo di decomposizione, che verso la morte. Nel naturale bilancio della natura tra il farsi e il disfarsi, nel mondo dell'ossessivo emerge la prevalente fisionomia del corrotto e del decomposto. Gebsattel delinea un mondo dell'ossessivo che conferma gli studi di Straus. È un mondo impoverito di comunicazione simpatetica e nel quale domina l'informe, che si manifesta come disordine, sporcizia, putrefazione; un mondo intessuto di forze oppositive a ogni forma, al cui insieme egli dà il nome di antieidos. L'autore osserva che quando si parla della struttura fisiognomica, non ci si può semplicemente riferire al rivivere di una «realtà arcaica», come supponeva, fra gli altri, C. G. Jung, dato che l'ampio spettro di forme fisiognomiche dei bambini e dei primitivi appare circoscritta nell'ossessivo a un ambito ben definito: soltanto ciò che è ostile alla forma, ciò che è volto alla non-forma o è atto a generarla si immette, determinandolo, nel mondo della coazione. E’ un mondo che si rivela come fisiognomicamente oppositivo, anzi oppositivo pseudomagico. L'elemento fisiognomico vi appare come una forza (dynamis) che simbolicamente volge alla non-forma, forza che si specifica negli aspetti della minaccia e della repulsione. Il disgusto che permea il mondo ossessivo non è una reazione a qualcosa di concreto e circoscrivibile; anche quando si coagula su un singolo oggetto, l'oggetto prescelto non è che il simbolo dell'impurità e il disgusto può essere evocato anche dalla sola parola che indica l'oggetto. Il mondo ossessivo può essere concepito come la traduzione allegorica di un danno più profondo, del quale il malato nulla sa, e assieme più aspecifico, che è per Gebsattel l'arresto del divenire temporale, in comune ad esempio con la melanconia. Il «male» dal quale l'ossessivo cerca di difendersi si muove tra l'impurità morale e quella materiale, fra colpa e il sentimento dello sporco e del marcio. Del resto, cita l'autore, nelle locuzioni popolari si dice: «chi sosta arrugginisce», «chi non avanza indietreggia», «l'acqua stagnante è acqua putrescente», ecc. L'informe che minaccia l'ossessivo è l'espressione camuffata dell'arresto del divenire del tempo. La centralità del tema della temporalità come costitutiva della presenza umana avvicina Gebsattel a E. Minkowski. Se Minkowski (1966) pone nel procedere in un «sincronismo vissuto» una delle radici della salute mentale, Gebsattel centra il mondo dell'ossessivo sull'«arresto del divenire», che fatalmente si volge in stagnare e regredire. Il passato che non riesce a rifluidificarsi nella coscienza del presente e che quindi non può essere riagito per un nuovo futuro è, come si sa, la scaturigine del vissuto e infine della colpa del melanconico, siglata dalla categoria dell'irrimediabilità: se il passato è coagulato per sempre non esiste la possibilità del perdono, così connessa alla forza del futuro. Si ha l'impressione che la turba del tempo costitutivo dell'ossessivo sfiori questa dimensione senza caderci dentro: è più un arresto del divenire che un prevalere del passato. Gebsattel mostra come questo arresto del divenire strutturi per l'ossessivo, e questo è il suo specifico, la potenza minacciosa della «decomposizione», vale a dire della corruzione della forma, e questo terrificante antieidos viene percepito coattivamente in aspetti fisiognomici del mondo. Ma per Gebsattel il fattore decisivo perché si possa costituire un mondo dell'ossessività non è semplicemente lo stagnare o il blocco del divenire temporale, che appare essere un dato transfenomenico di base piuttosto aspecifico (e questa è ad esempio la critica, pur piena di ammirazione, mossa da Jaspers), ma una particolare struttura personologica: è in definitiva questa che modula l'espressione clinica del disturbo temporale, fra le tante possibili, verso il disturbo ossessivo. Esistono quindi modi diversi di stare rispetto al medesimo disturbo fondamentale: il problema è perché esso si traduca ora nel mondo ossessivo della contaminazione, ora in quello melanconico della colpa. In ogni caso queste diverse possibilità di espressione clinica dell'arresto del fluire temporale, della temporalità costitutiva, in funzione di assetti personali che possono anche modificarsi nel corso dell'esistenza, sembra essere la risposta implicita che Gebsattel suggerisce al problema della continuità tra mondi psicopatologici distinti. Il problema si riferisce non solo alla vicinanza, anche clinicamente intuibile e osservabile nella tipologia della personalità premorbosa, fra ossessione e melanconia, di come l'arresto del divenire, il restare indietro, che è l'essenza del debet, si trasformi in colpa, ma anche ai passaggi e transizioni fra ossessione e delirio. Un famoso contributo di L. Binswanger (1957) è centrato proprio sulla relazione fra ossessione e delirio nel caso Lola Voss, il cui «oracolo linguistico» è un fenomeno ossessivo in quanto Lola Voss sente la necessità di interpretare e decifrare la realtà come una compulsione egodistonica, ed è in nuce delirante sull'assunto che il destino si manifesti attraverso simboli la cui lettura può evitare all'uomo il compiersi del destino, fino al delirio di persecuzione nel quale si manifesta la pura passività del Sé, caduto in balia di un occulto potere. Questo confinamento dell'orizzonte dei significati al prevalere di quelli fisiognomici con eclissamento di quelli razionali-condivisi avvicina l'ossessivo al delirante, e in specie l'ossessivo assediato dalla coazione simbolica a dare significati. Ma qui finisce l'analogia, mentre la differenza si staglia in merito al rapporto fra il senso di «attività» (Jaspers) e di «passività» dell'Io. Mentre il delirante sembra un esempio di estrema passività nei confronti della modalità «rivelatoria» che struttura ogni autentico delirio, un vero e proprio Diktat di significati che promana dagli oggetti (così rompendosi l'equilibrio normale fra «prendere» ed «esser presi» dall'universo mondano), ma non vive affatto questa passività come tale, l'ossessivo esperimenta la pili atroce passività soggettiva là dove l'osservatore rileva un senso di attività dell'Io, e quindi di «appartenenza» all'Io (Schneider), conservata, per cui l'ossessione è sempre la «sua» ossessione. La cittadella è assediata dalle potenze distruttive, ma i confini dell'Io non sono travalicati. Un'ipotesi, tuttavia, è l'appartenenza alla noesi ossessiva della proprietà di «esperienza limite» verso il delirare, e che i passaggi lungo ossessione-delirio (e viceversa) avvengano lungo il gradiente di «coscienza di attività» nella costituzione dei significati degli oggetti mondani. Il concetto di «passività», che può costituire un ordinatore psicopatologico dell'articolazione tra ossessione e rivelazione delirante, è riconducibile alla crisi della quotidiana proporzione dialettica tra recettività e costruzione-appropriazione dei significati mondani. Un equivoco da chiarire è che quando la psicopatologia fenomenologica si riferisce ai concetti fondamentali di «attività» e «passività» non di rado accade che lo faccia su due piani diversi e non sempre specificati: dal punto di vista del soggetto e da quello dell'osservatore. Così l'osservatore dirà che ogni autentica percezione delirante è l'icona della passività ricettiva, insita in ogni modalità rivelatoria di conoscenza, nella quale non io vado verso i significati ma essi mi assalgono e mi trafiggono, mentre il delirante non avverte affatto, dal suo punto di vista, l'estrema passività che invece l'osservatore scorge con lo strumento fenomenologico soggettivo» nella costituzione del mondo di lignificati che sostanziano il delirio quale perdita di proprietà delle proprie idee, quale abbandono, resa, a ciò che gli oggetti sembrano dirci da loro stessi e quindi quale cadere preda e vittima del mondo. Il carattere dei disturbi ossessivi è invece l'esasperazione dell'attività di essere speculator sui, della coscienza di attività nella costituzione dei significati e, assieme, di costrizione di fronte ad essa. Lo svanire della coscienza di attività e assieme del sentimento di passività marcano l'ingresso nel delirio, verso il quale e nei confronti dell'assedio dei significati fisiognomici, l'ossessività sembra una strenua ed estrema difesa. La transizione inversa, fra vissuti con il carattere del delirio e vissuti con il carattere delle ossessioni, può non raramente esser colta, magari fugacemente, nei casi fortunati nei quali il disturbo delirante evolve favorevolmente: allora l'apparire del senso di passività, di essere costretti a pensare un tema, senza più crederlo l'oggettiva verità, è il segno della ripresa dell'attività dell'Io, propria dell'esperienza ossessiva. Vale a dire, nell'approccio terapeutico sistematico e continuativo alla persona che delira, si può assistere a una disattualizzazione e svanire della certezza delirante e lungo questo percorso un giorno il terapeuta può ad esempio sentirsi dire: «mi riviene in mente che...»; non si tratta affatto di una ricaduta nel delirio poiché l'uso della particella «mi» (a me) indica una sorta di salto quantico dalla verità rivelata dagli oggetti mondani, a una posizione di riappropriazione del proprio pensiero come proprio, anche se sentito inopportuno e non voluto. Talora il percorso dal delirio all'ossessività è clinicamente più consistente, ma non va considerato quale una sorta di esito defettuale, come una cicatrice, del disturbo delirante ma quale una riappropriazione della presenza da parte di se stessa, sia pure nella modalità coattiva dell'ossessione. ARNALDO BALLERINI |